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giulioammannato

Io terapeuta, un guaritore ferito

Di Maria Cristina Bivona

Voglio scrivere della mia esperienza, voglio scrivere di ciò che anni fa ha accesso il fuoco per la mia professione, ignara dei percorsi, della potenza e della passione che avrebbe significato e che tutt’ora significa.Soltanto oggi mi rendo conto di come un libricino incontrato negli studi universitari, anni fa, sia diventato ricco di significati, sfumature e crescita per me, come persona e come psicologa. Il libro in questione è “Lettera aperta a un apprendista stregone” di Aldo Carotenuto, uno psicologo lontano da quello che oggi è il mio approccio alla vita e al disagio psicologico. L’autore è riuscito a esprimere pienamente la possibilità e speranza di “rinascere dalle ceneri”, insita in ogni percorso di vita che si possa definire davvero terapeutico.


All’origine della scelta di fare una professione basata sulla relazione d’aiuto, sembrerebbe esserci un vuoto, la mancanza di un elemento essenziale nella dieta affettiva, non una cicatrice, ma una ferita ancora aperta, non rimarginata del professionista delle relazioni d’aiuto. In particolare, grazie all’Approccio Centrato sulla Persona nella pratica clinica, ho compreso come questa ferita ancora aperta del guaritore, può garantire la via d’accesso, per accogliere senza giudizio le fragilità altrui, per stare nel dolore senza scappare, consolare, per accettare le imperfezioni e le storture di vite difficili. Il fatto che gli psicologi o chi si occupa di relazioni d’aiuto siano “soggetti da psicoterapia” non significa che chi aiuta è bisognoso di cure più del suo stesso paziente/cliente! Essere in contatto con le proprie ferite, vuol dire non smettere di crescere, non sentirsi mai del tutto guariti, o arrivati rispetto alla propria crescita personale, vuol dire continuare ad imparare dai propri clienti, poiché è il riconoscimento delle nostre fragilità che ci rende “invincibili”.


Il guaritore ferito, tenendo costantemente d’occhio le proprie ferite e avendole riconosciute e accettate, può far sì che diventino delle “feritoie” attraverso cui guardare il dolore altrui con più compassione e comprensione. Perché quando una persona che soffre vede accettate e riconosciute le proprie fragilità dal suo guaritore, allora potrà davvero smettere di lottare contro sé stesso e canalizzare quelle energie nella lotta per sé stesso. In poche parole, quella ferita che non si è mai chiusa del guaritore, può diventare una spinta fortissima all’altro, alla relazione e al suo potere creativo e curativo. Lo psicoterapeuta, dal greco “terapon” ossia l’assistente che detiene e porge le armi al guerriero durante la guerra, è appunto colui che, attraverso una formazione non solo teorica ma anche esistenziale, non scende direttamente in campo per combattere la guerra, ma offre le armi giuste al guerriero per fronteggiare le proprie battaglie. E’ colui che non si pone come il massimo esperto della vita altrui, ma considera ogni individuo come massimo esperto di sé stesso. All’interno della relazione terapeutica, le sue competenze risiedono nell’intento continuo di ascoltare e comprendere i bisogni dell’altro, di porre rispetto e assenza di giudizio a tutte le esperienze riferite e di mettere in campo tutto sé stesso, come professionista e persona.


Io come terapeuta e come guaritore ferito spero dunque, che le mie ferite non si rimarginino, che non diventino cicatrici trasparenti, che stiano li quando incontro una persona che soffre, a ricordarmi quanto a volte sia difficile vivere la vita, ma anche quanto sia possibile rinascere ogni giorno più forte dalle proprie ceneri. È per questo che amo il mio lavoro e mi sento fortunata, perché ogni persona che ho avuto modo di aiutare mi ha essa stessa aiutata, perché mi sono nutrita dello stesso clima facilitante che ho co-costruito, perché le relazioni davvero terapeutiche tra guaritori e feriti nutrono ed emozionano chi le vive. E voglio ricordare a me e a chi fa questo lavoro, a chi è in contatto in mille modi con la sofferenza altrui, le parole di Herman Hesse quando nella ‘Quercia spezzata’ scrive: “…E a dispetto del dolore resto innamorato di questo pazzo mondo”.

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