Crisi, presenza e cura: un dialogo tra Ernesto de Martino e Carl Rogers
- giulioammannato
- 1 lug
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Di Gabriele Castelnuovo

Nel seguente testo vorrei connettere il pensiero di Ernesto de Martino con quello dell’approccio centrato sulla persona di Carl Rogers poiché credo che non sia solo possibile, ma illuminante. Entrambi, pur in ambiti disciplinari diversi (antropologia e psicologia), si pongono il problema del rapporto con l’altro e della necessità di un atteggiamento etico ed epistemologico di sospensione, ascolto e rispetto.
Ernesto de Martino è stato uno dei pensatori più profondi e originali del Novecento italiano. Antropologo, filosofo e storico delle religioni, ha dedicato gran parte del suo lavoro alla comprensione delle culture "altre", in particolare di quelle del Sud Italia, con un approccio radicalmente rispettoso e partecipe. Lungi dal considerare i fenomeni come residui arcaici da superare o come forme di patologia collettiva, de Martino si è sforzato di comprenderli nella loro funzione culturale ed esistenziale. In questo senso, la sua opera può essere letta come un lungo esercizio di sospensione del giudizio, come un tentativo etico e conoscitivo di restare in ascolto, di sostare di fronte a ciò che appare incomprensibile, senza ridurlo subito a qualcosa di noto.
Il cuore del pensiero di de Martino ruota attorno a un concetto fondamentale: la crisi della presenza. Con questa espressione, l’autore indica quei momenti in cui l’identità personale e culturale vacilla, in cui l’essere umano rischia di perdere la propria capacità di esserci nel mondo in modo attivo, orientato e dotato di senso. La cultura, secondo de Martino, nasce proprio come risposta a questa crisi: come insieme di strumenti simbolici, rituali, collettivi che aiutano l’individuo a ritrovare la presenza, a rientrare nella propria esperienza, a salvarsi. È con questa lente che de Martino guarda a fenomeni come il tarantismo, il lutto rituale, la magia, non come superstizioni o disordini mentali, ma come strategie di salvezza, culturalmente situate, di fronte al rischio di dissoluzione del sé.
Per comprendere questi fenomeni, l’antropologo deve sospendere ogni pregiudizio, ogni tentazione di spiegazione riduttiva. Deve rinunciare all’etnocentrismo che giudica l’altro in base ai propri parametri culturali. Deve, infine, entrare – con delicatezza – nel dramma umano che quelle pratiche mettono in scena. È qui che il pensiero di de Martino entra sorprendentemente in risonanza con Carl Rogers. Anche Rogers infatti, pur muovendosi in un ambito diverso – quello della psicologia umanistica – ha posto al centro del suo pensiero e della sua pratica il tema dell’incontro autentico con l’altro. Nella relazione d’aiuto, il terapeuta rogersiano è chiamato ad assumere un atteggiamento di accettazione incondizionata, di empatia profonda, di autenticità personale. Ma ciò che più colpisce, in parallelo con de Martino, è l’importanza attribuita da Rogers alla sospensione del giudizio: per poter aiutare l’altro, non partire da ciò che si crede di sapere sull’altro; ma accoglierlo così com’è, nel suo mondo soggettivo, anche se appare, ai nostri occhi, distante, disordinato, o “sbagliato”.
Sia de Martino che Rogers ci chiedono dunque di lasciare spazio all’altro, senza invaderlo con i nostri schemi. Per de Martino, questo significa non patologizzare una pratica culturale come il tarantismo, ma cercare di comprenderla nel suo contesto simbolico, storico, affettivo. Per Rogers, significa non interpretare o diagnosticare subito, ma ascoltare davvero ciò che la persona porta, con le sue parole, le sue emozioni, le sue ambivalenze.
E soprattutto di saper stare e rimanere nella relazione con l'altro, nella relazione con ciò che appare diverso e incomprensibile. In entrambi i casi, c’è una profonda fiducia nella capacità dell’essere umano di trovare un proprio equilibrio, se solo viene messo nelle condizioni di farlo, se solo trova un contesto sufficientemente accogliente, sufficientemente “contenitivo”. C’è poi un altro punto che avvicina questi due pensatori: la concezione della crisi non come malattia da eliminare, ma come passaggio.
De Martino studia riti che hanno la funzione di reintegrare la persona nella vita collettiva dopo una frattura, dopo un momento in cui la presenza si è eclissata. Rogers, dal canto suo, accompagna le persone in percorsi in cui la sofferenza, l’incoerenza, la confusione possono diventare opportunità di crescita, se accolte con rispetto e senza forzature.
Entrambi vedono la fragilità umana non come una colpa o una mancanza da correggere, ma come luogo di umanità in cui si può compiere una trasformazione. Infine, sia l’antropologo che il terapeuta sono coinvolti in ciò che fanno. Non sono osservatori neutrali. Per de Martino, comprendere l’altro implica una partecipazione emotiva e una disponibilità a lasciarsi interrogare. Per Rogers, la congruenza – cioè la capacità di essere autentici nella relazione – è una delle condizioni necessarie per facilitare il cambiamento. Nessuno dei due propone un metodo freddo o distaccato: entrambi richiedono presenza, impegno, umanità.
Pur provenendo da ambiti differenti, de Martino e Rogers offrono una lezione convergente: quella di un pensiero dell’incontro, dell’ascolto profondo, della sospensione del giudizio come gesto radicalmente etico. Che si tratti di comprendere un rituale del Sud Italia o di accompagnare una persona in terapia, l’altro – con il suo mondo, le sue ferite, i suoi tentativi di senso – va accolto, prima di essere interpretato. Va vissuto, prima di essere spiegato. Solo così, forse, possiamo davvero incontrarlo.
Come si è detto, Ernesto de Martino elabora il concetto di crisi della presenza per descrivere quei momenti in cui l’essere umano sperimenta una perdita di orientamento, un crollo dei riferimenti simbolici e affettivi che gli permettono di “essere nel mondo”. Si tratta di una crisi profonda che può assumere forme diverse: luttuose, psichiche, culturali. È una perdita del potere di esserci, dell’unità tra corpo, affetti, linguaggio e orizzonte di senso. In questi momenti, l’Io rischia di frammentarsi, di non riconoscersi più, di precipitare nell’indistinto.
Questa crisi, tuttavia, non è semplicemente patologica. De Martino rifiuta ogni lettura clinica o semplicemente psicologica: la crisi è anche uno spazio di possibilità. È lì che la cultura interviene, attraverso rituali, miti, pratiche collettive, per restituire all’individuo la sua presenza nel mondo. Il tarantismo, ad esempio, è un rito che permette alla persona di esprimere il dolore, il conflitto, la perdita, attraverso un linguaggio simbolico e corporeo che la riporta alla vita, alla comunità, al tempo. In questo senso, la cultura è cura, e la cura è il luogo in cui l’essere umano può reinventarsi e ritrovare la propria continuità. Questa visione ha una profonda affinità con il pensiero di Carl Rogers, e in particolare con l’idea di persona pienamente funzionante. Secondo Rogers, la persona tende naturalmente alla crescita, all’integrazione, all’autorealizzazione, a condizione che trovi un ambiente sufficientemente accogliente.
L’essere umano, per Rogers, non è un sistema da correggere, ma un organismo da accompagnare nel proprio sviluppo, spesso rallentato o distorto da condizioni ambientali carenti di empatia, accettazione e congruenza. La persona pienamente funzionante è colui che ha imparato a fidarsi della propria esperienza interna, che è aperto al cambiamento, che vive nel presente e sa affrontare anche la disorganizzazione senza negarla o fuggirla. Se la crisi della presenza è, in de Martino, il rischio di perdere l’orientamento nella propria esistenza, la cura è ciò che permette il ritorno alla presenza. Analogamente, in Rogers, la crisi non è un fallimento, ma un punto critico del processo di autorealizzazione: quando la persona incontra un ambiente terapeutico favorevole, può attraversare la crisi e diventare se stessa in modo più autentico e profondo. In entrambi i casi, la cura non è una tecnica, né un sapere che si impone dall’esterno. È un contesto umano, fatto di attenzione, sospensione del giudizio, ascolto radicale. Per de Martino, questo contesto è il rituale collettivo; per Rogers, è la relazione d’aiuto. Ma in entrambi, la cura è ciò che riabilita la presenza, restituendo alla persona la possibilità di sentirsi agente, situato, riconosciuto.
Interessante è anche notare come, tanto per de Martino quanto per Rogers, non c’è mai una separazione netta tra individuo e contesto. La crisi non è solo interna: è una crisi di senso che riguarda anche il mondo, la cultura, le relazioni. E la cura, allo stesso modo, non è mai solo introspettiva: è un processo relazionale e simbolico, che rimette in moto il legame tra sé e realtà. È qui che Rogers parla di persona pienamente funzionante non come di un ideale statico o di un sé perfetto, ma come di una dinamica di apertura, un equilibrio in movimento in cui la persona vive in contatto con il proprio sentire, flessibile, responsiva, viva. De Martino e Rogers, in fondo, ci invitano entrambi a un nuovo modo di concepire la vulnerabilità umana: non come difetto, ma come punto di partenza per una possibile trasformazione. Entrambi affidano alla relazione – con l’altro, con la cultura, con il terapeuta – la possibilità di attraversare la crisi senza esserne annientati, di uscirne diversi, forse più congruenti.
Mettere in dialogo Ernesto de Martino e Carl Rogers significa scoprire una comune fiducia nell’essere umano, nella sua capacità di darsi forma, anche nel disordine, anche nella sofferenza. Entrambi pensano la cura come un processo di reintegrazione – della presenza, del sé, del senso – reso possibile non dal controllo, ma dalla sospensione, dall’ascolto, dalla partecipazione.
La persona pienamente funzionante di Rogers è, in fondo, colui che ha attraversato la crisi senza perdersi, che ha imparato a fidarsi della propria esperienza e a restare aperto al mondo. È la presenza ritrovata di cui parla de Martino, non come dato, ma come conquista fragile e quotidiana. Ernesto de Martino e Carl Rogers, pur provenendo da ambiti disciplinari differenti, condividono una visione profonda e umanistica dell’essere umano. Entrambi si sono occupati delle forme attraverso cui l’individuo può attraversare la crisi senza esserne annientato, e di come la cura – intesa come spazio simbolico e relazionale – possa restituire all’essere umano la possibilità di essere presente a sé stesso e al mondo, di attuare quel potere che gli permette di incidere e partecipare al mondo.
Oggi più che mai, in un tempo attraversato da incertezze globali, instabilità economiche, cambiamenti climatici e crisi del senso, questa visione appare urgente. La crisi non è un’eccezione, ma una condizione diffusa. In questo scenario, la possibilità di stare nell’esperienza, anche quando è confusa e disorganizzata, diventa una conquista fragile ma essenziale. Essere presenti a sé stessi non significa avere tutto sotto controllo, ma poter sostare nel proprio sentire senza esserne sopraffatti. È un gesto quotidiano, umano, profondamente trasformativo. De Martino e Rogers ci ricordano che la presenza non è un dato, ma un esercizio: un’arte del vivere, che si costruisce nel tempo, nella relazione, nella parola. Ed è proprio questa arte che, oggi, abbiamo più che mai bisogno di coltivare.
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