Disability Studies e Carl Rogers
- giulioammannato
- 30 apr
- Tempo di lettura: 4 min
Di Gabriele Castelnuovo

Chi decide cosa è normale? Ripensare la disabilità e l'inclusione attraverso sguardi che trasformano
Quando ci rapportiamo alla disabilita, spesso ci troviamo spiazzati. Non sappiamo bene come comportarci, cosa dire, come agire. In questa incertezza, ci aggrappiamo a cio che ci è familiare: il paradigma biomedico. E’ una lente rassicurante, perché fornisce spiegazioni semplici e soluzioni tecniche, ma è anche una lente limitante.
Il paradigma biomedico considera la disabilità un problema individuale, centrato sul deficit o sulla menomazione, da correggere o compensare attraverso cure, riabilitazione o interventi specializzati. Questo sguardo ha dominato a lungo le politiche, i servizi e anche l'immaginario collettivo. Ma cosa comporta davvero?
Comporta, ad esempio, la diffusione di atteggiamenti abilisti - ossia, visioni del mondo che danno per scontato che l'essere "normale" coincida con l'essere abile. L'abilismo si manifesta in forme sottili ma pervasive: pietismo, paternalismo, spettacolarizzazione della persona con disabilità. Si presume che la disabilità sia una "tragedia" da superare, che chi la vive sia "ispirazionale" solo per il fatto di esistere.
Una proposta alternativa: i Disability Studies .
L’approccio dei Disability Studies è un ambito di studio di ricerca interdisciplinare che si è sviluppato negli ultimi venti anni principalmente in Inghilterra e negli Stati Uniti e che è presente da alcuni anni anche in Italia. I Disability Studies propongono un ribaltamento del punto di vista. Nati come campo accademico multidisciplinare, questi studi non si concentrano sul corpo o sulla mente della persona, ma sul modo in cui la società produce e amplifica l'esclusione. La disabilita, in questa prospettiva, non è una condizione individuale ma una costruzione culturale e politica.
Il cuore dei Disability Studies è l'idea che cio che disabilita non è tanto il corpo diverso, quanto l'ambiente che non accoglie, le relazioni che escludono, le narrazioni che etichettano. Il problema non è "la persona disabile", ma la società che costruisce barriere: fisiche, simboliche, comunicative.
Questo approccio chiama in causa la norma stessa. Chi decide cosa e normale? E in base a quali criteri? I Disability Studies rifiutano la logica della "differenza come mancanza" e propongono una visione della diversità come elemento costitutivo dell'umano.
L'inclusione, in questa prospettiva, non è una semplice "integrazione" dell'altro nel mondo già dato. E’ un processo continuo, mai concluso, di ridefinizione degli spazi, delle relazioni e delle regole. Non si tratta di "includere" qualcuno in un sistema che resta immutato, ma di trasformare il sistema affinché sia davvero abitabile per tutte e tutti.
Essere inclusivi significa ascoltare le voci delle persone che vivono i contesti; rimettere in discussione strutture e linguaggi; abbandonare ogni idea prescrittiva di come si debba essere per "appartenere". L'inclusione è etica, politica e trasformazione sociale.
Pur non citandolo direttamente, nei Disability Studies, si ritrovano molte risonanze con l'approccio centrato sulla persona di Carl Rogers. In particolare:
la fiducia nelle potenzialità dell'individuo quando posto in un contesto facilitante;
la critica alle etichette e alle categorizzazioni che oscurano la soggettività e creano “Normalità”
l'importanza della relazione autentica come spazio di cambiamento e crescita;
l'idea che ogni persona sia degna di essere ascoltata, rispettata, valorizzata.
L'attenzione per il paradigma di riferimento che non può che condizionare i nostri significati e le nostre azioni
Le tre condizioni rogersiane - empatia, congruenza, considerazione positiva incondizionata - diventano, in questo contesto, principi epistemologici che guidano non solo il lavoro clinico, ma anche le pratiche educative, sociali e politiche. Carl Rogers rifiutava le etichette e metteva al centro l'esperienza soggettiva dell'individuo. La persona, non la diagnosi, e il cuore del processo di crescita. Ogni essere umano, se accolto in un clima empatico, autentico e non giudicante, può sviluppare le proprie potenzialità. Entrambi gli approcci rifiutano il "normativo" come misura dell'umano.
Adottare la prospettiva dei Disability Studies, in dialogo con l'approccio centrato sulla persona, ci permette di fare un salto di qualità: dal "prendersi cura" al "condividere responsabilità"; dall "aiutare" al "camminare insieme"; dal "normalizzare" al "riconoscere e accogliere la diversità". Ci permette di concepire l'inclusione non come un traguardo da raggiungere una volta per tutte, ma come un processo dinamico, instabile, in continua costruzione. Si tratta di ristrutturare continuamente i contesti per dare spazio e voce a chi li vive. E’ una responsabilità etica e politica, che implica l'apertura all'alterità e la volontà di trasformare i saperi e le istituzioni.
Rogers avrebbe definito questo contesto "facilitante": un ambiente relazionale in cui l'autenticità, la considerazione positiva incondizionata e l'empatia non sono solo atteggiamenti terapeutici, ma vere e proprie condizioni epistemologiche. Il terapeuta - o l'educatore, o l'operatore sociale - diventa così un agente consapevole dei processi inclusivi poiché riesce a guardare il mondo con occhi diversi.
Entrambi gli approcci rifiutano l'idea di una norma prestabilita a cui aderire per essere considerati pienamente umani o cittadini. Nei Disability Studies, la disabilità diventa metafora potente di tutte le forme di marginalità. L'inclusione, perciò, non è semplicemente "integrare chi è fuori", ma ridefinire i confini stessi del dentro e del fuori.
In Rogers, troviamo la stessa tensione tra l'individuo e il contesto: la crescita personale è sempre situata, e richiede un contesto relazionale che riconosca e rispetti la soggettività. Cambiare non è adeguarsi a una norma, ma diventare sempre più congruenti e quindi vicini al sé organismico.
Unendo le intuizioni dei Disability Studies e dell'approccio rogersiano, possiamo costruire pratiche che mettono davvero al centro la persona, nella sua interezza e nella sua relazione con il mondo. Non si tratta di aiutare da una posizione superiore, ma di creare spazi di reciprocità, di ascolto, di riconoscimento.
Se vogliamo parità, se vogliamo creare comunità davvero inclusive capaci di accogliere la diversità dei corpi, dei funzionamenti mentali, del genere e così via; forse il primo passo reale da compiere è quello di non togliere al nostro prossimo il potere della parola, fare lo sforzo di mettere in discussione costantemente e non dare per scontato, il nostro modo di guardare. Se ognuno e ognuna si disponesse a fare spazio per accogliere, anche la qualità delle relazioni di una comunità nel suo complesso ne uscirebbe migliorata perché contaminata dai mille sguardi diversi, dai mille corpi diversi che la vivono e la abitano insieme.
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