Curare il corpo per curare la mente
Ovvero rielaborare l’esperienza della malattia fisica
Di Maura Anfossi, Responsabile Servizio di Psicologia Ospedaliera e Trauma Center, A.O. Cuneo
Relazione al Convegno dell’Approccio Centrato sulla Persona a Rovereto “Dalla cura della persona alla cura delle organizzazioni, alla cura dell’ambiente.”tenutosi il 26-27 ottobre 2024.

“La salute, nostra ombra, non può staccarsi da noi. E sta sempre meglio del nostro corpo.
Quando ci ammaliamo sembra che la perdiamo invece è sempre lì, implicita, che aspetta la
luce giusta, la nostra volontà di vita, per uscire, per allungarsi, per mostrarci la nostra vera
forma, compiuta e unitaria.” Nicola Gardini “Io sono salute. Quando la letteratura incontra la
medicina”, 2023
Questa citazione è il motivo per cui ho scelto di mettere questo titolo alla mia relazione.
Sono felice di essere qui. Ho voglia di condividere con voi quella che è la mia esperienza ormai
quindicennale di lavoro al Servizio di psicologia e all’annesso Trauma Center psicologico e
sono molto grata agli organizzatori per il tema che questo convegno propone.
Vi proporrò alcuni spunti a partire dall'attività che facciamo in ospedale per agevolare la
rielaborazione dell'esperienza di malattia in malati ed operatori sanitari.
Che cos’è l’esperienza di malattia? Andare gambe all’aria. E che cos’è la cura? Ritornare in
sella al cavallo: questo è metaforicamente il vissuto.
Ho riflettuto molto prima di preparare questa relazione e ci sono delle frasi che mi hanno girato
dentro e mi hanno orientata. Ho pensato che posso parlare di questa esperienza di lavoro con
la malattia e con il trauma da tanti punti di vista e nessuno sarebbe esaustivo. Alla fine mi sono
convinta e autorizzata a parlare delle cose che mi divertono e allora partirò dal fatto che sono
innamorata! Di mio marito, delle mie figlie ovviamente ma inaspettatamente vi dirò che lo sono
anche di un libro: Terapia Centrata sul Cliente. Sono innamorata in particolare del capitolo 8,
quello che descrive e spiega la teoria della personalità.
Sono estremamente contenta di poter oggi parlare a voi della mia esperienza di lavoro in
ospedale a partire da quanto questa teoria per me dia, anche in ambito sanitario, dei contributi
fondamentali. La ricerca e anche le tecniche di lavoro sulla comunicazione in sanità vanno a
riprendere uno dei concetti che abbiamo sentito descrivere in modo molto accurato e
aggiornato da Federica Meconi, che mi ha preceduto.
Per me è veramente entusiasmante pensare che gli articoli che escono su riviste mediche
altamente indicizzate, come il Journal of Clinical Oncology, citano concetti come l’empatia che
nel 1951 già Rogers anticipava.
Allora partiamo da che cos’è l’esperienza della malattia secondo la teoria della personalità.
È un disequilibrio nell’organismo che produce sintomi per cui, nel caso della neoplasia ci sono
cellule anomale che possono generare disfunzionamento o dolore, oppure la sofferenza e i
sintomi si producono in seguito a terapie o interventi chirurgici invalidanti o a incidenti vari.
È un disequilibrio se la guardiamo dal punto di vista dell’organismo e una minaccia se la
vediamo rispetto al concetto di sé.
Mi sono resa conto che il disequilibrio dell’organismo va a coincidere col concetto di disease
della medicina narrativa e la minaccia al concetto di sé corrisponde alla illness, cioè a come
ognuno di noi vive l'esperienza di quel corpo, che in un certo momento si è ammalato.
Partiamo dalla minaccia al concetto di sé. Che cosa accade al concetto di sé quando viene
diagnosticata una malattia oppure quando percepiamo che il nostro corpo non sta più
funzionando bene oppure quando andiamo incontro ad un evento traumatico che genera una
sofferenza, una mutilazione nel nostro corpo?
Saltano i nostri costrutti. La nostra salute, il nostro star bene normale da che cosa è
caratterizzato? Dai costrutti di sicurezza, invulnerabilità e soprattutto dal concetto che noi, se
siamo adulti, siamo autonomi nella gestione dei nostri bisogni e abbiamo il controllo delle nostre
emozioni.
La malattia, quel disequilibrio nel corpo, va a minacciare questi costrutti. Ci manda giù da
cavallo, ci disarciona. Per cui l’esperienza di malattia mina questi costrutti e porta a galla il
senso della nostra vulnerabilità, del non essere al sicuro.
Gli altri due aspetti di modifica dei costrutti hanno un rilievo essenziale anche per chi, caregivers
o operatore sanitario, si occupa della relazione con la persona sofferente: il tema della dipendenza dagli altri (se sono allettato e mi devono amputare un arto dipendo dai miei familiari
e dai curanti) e poi c’è il grande tema della perdita del controllo emozionale. Che io adotti uno
stile un po’ più congelato ed evitante o che abbia delle manifestazioni emozionali estremamente
evidenti, la malattia mi porta comunque a cambiare quella che è la mia solita modalità di
controllo e gestione della dimensione emozionale.
Adesso vi do qualche spunto sulle attività che svolge un servizio di psicologia in un ospedale
HUB, che è una struttura dove ci sono neurochirurgia, cardiochirurgia, un ospedale che ha tutte
le discipline ed è un riferimento per un’area territoriale vasta, quindi un ospedale che interviene
per qualunque tipo di patologia. Nel caso del nostro ospedale non si fanno però i trapianti di
organo, di rene o di cuore, ma ha moltissime specializzazioni ad elevata intensità di cura e che
prende in carico pazienti con varie complessità.
Come servizio di psicologia veniamo coinvolti per l’intervento con persone che hanno patologie
croniche varie, ci occupiamo di pazienti che subiscono interventi demolitivi, amputazioni,
prepariamo per i trapianti di cellule staminali, ci occupiamo di genitori che vivono eventi avversi
nel percorso nascita, vittime di traumi stradali, sul lavoro, violenze, catastrofi. In questi ultimi
due anni c’è stato un aumento di richieste per familiari di pazienti che hanno tentato oppure
portato a termine un gesto anticonservativo. E poi ci occupiamo anche degli operatori che
vivono traumi vicari.
Due situazioni emblematiche per accennare in concreto alle problematiche rispetto alla malattia
come disequilibrio dell’organismo e minaccia al concetto di sé.
Paola è una donna che ha avuto una alopecia totale e dopo un lavoro che ha fatto, approfondito
ed accurato in cui si è messa molto in gioco, i capelli le sono ritornati, cosa piuttosto inconsueta.
Successivamente le hanno fatto una diagnosi oncologia e le terapie l’hanno portata a perdere
nuovamente i capelli che non sono più ricresciuti. Questa è una delle sofferenze che incontriamo. Paola aveva una chioma folta e nei suoi costrutti c’era anche l’idea che molto della
sua gradevolezza fosse legata a quei capelli e parte del suo tempo libero era dedicato alla loro
cura e ad adornarli. E invece i sintomi che aggredirono il suo organismo richiesero terapie che
minacciarono quel concetto di sé che dovette ridefinire nel percorso di psicoterapia.
Marco l’ho incontrato 6 anni fa in una terapia intensiva, aveva 16 anni ed era stato vittima di un
incidente: mentre era sul suo scooter di ritorno dalla azienda agricola del nonno, un’auto l’ha
investito. Arrivato in ospedale gli hanno dovuto amputare in urgenza la gamba sinistra per
evitare la morte per setticemia. Pochi giorni dopo hanno dovuto procedere anche alla
amputazione del braccio della stessa parte.
Un’altra situazione che incontriamo molto spesso e di cui continuo ad occuparmi perché seguo
l’ostetricia ed il percorso nascita, sono tutti gli eventi avversi, quindi le diagnosi infauste, gli
aborti del secondo e terzo trimestre, le morti in utero e perinatali.
Jessica e Robi sono i genitori di Anna, una bimba nata morta il 14 agosto. Questo è il paradosso
del percorso nascita. Il costrutto che viene minato è quello di un sé genitoriale che va
immediatamente in contraddizione, perché ti aspetti di dare vita e invece... Ricordo ancora il
14 agosto del 2007 il giorno in cui ho fatto la prima consulenza ad una coppia di genitori accanto
ad una cullina con un cadavere di un neonato. Il papà mi diceva: “dottoressa io faccio per mio
figlio l'unica cosa che un genitore non vorrebbe fare mai, ma è l’unica cosa che posso fare:
seppellirlo”.
Questi sono flash su alcune delle esperienze che noi cerchiamo di affiancare e sulle quali
lavoriamo in ospedale. Costituiscono sempre momenti di stress, anomalia rispetto al fluire
quotidiano dell’esperienza ma spesso si configurano come veri e propri traumi, data la potenza
emozionale e l’incombenza di conseguenze che portano con sé.
Che cosa ci dice l’istinto in questi casi? Quale sarebbe la nostra reazione intuitiva e che cosa
ci porterebbe a fare l’istinto di fronte di una amputazione di un arto, alla seconda volta in cui
perdo i capelli, alla constatazione che la creatura che io ho partorito è morta? Abbiamo
immediatamente l’istinto di esclusione dell’esperienza.
Tant’è che Robi e Jessica hanno scelto di non vedere il corpo della loro bimba. Ora, a distanza
di due mesi sono disperati perché vorrebbero averla vista. Abbiamo lavorato molto soprattutto
con Jessica per dire “in quel momento non ce la facevi”. Gran parte della letteratura ci dice che
è molto meglio vedere il corpo sofferente, deceduto, il corpo esanime del proprio neonato, però
ci sono momenti in cui la mente non ce la fa.
E quindi quel tipo di esperienza diventa un’esperienza muta. Rogers dice che ci sono delle
esperienze che non riescono, non possono, fino ad un certo momento, essere simbolizzate.
“Il comportamento era dissociato perché in contrasto traumatico con il concetto di sé”, scrive
Rogers a pagina 338 di Terapia Centrato sul Cliente.
Ogni volta che parlo di dissociazione amo dire che, a parte Janet, si crede che il concetto di
dissociazione sia stato utilizzato la prima volta da Kohut, invece l’ha utilizzato Rogers.
Passiamo ora alla cura.
Se la malattia mina la sicurezza che cos’è la cura? La cura è radicamento.
Se la malattia ci manda gambe all’aria e mina le nostre certezze, la cura è radicamento.
Ma la cura, per essere radicamento ed essere efficace, deve avere alcune caratteristiche.
In base alla mia esperienza clinica di 15-20 anni in ospedale vi dico che la cura funziona se è
una cura che ha responsabilità. Due fili che si intrecciano: i curanti, la persona malata, il suo
caregiver devono tutti metterci responsabilità. La cura funziona se tutte le parti in gioco sono
responsabili.
Che cosa significa essere responsabile per un curante? Significa dare corpo alla parola.
Essere responsabile per un malato significa dare parola al corpo.
Questa estate mentre pensavo a come preparare questa relazione c’era questa frase che
ritornava dentro e mi sembrava il punto cruciale: corpo e parola si devono intrecciare, da
entrambi i punti di vista.
Vi cito un articolo che amo molto “The Physichian: a Secure Base”, di P. Gerretsen e J. Myers,
sul Journal of Clinical Oncology, vol 26, n. 32, november 10, 2008, pubblicato pochi giorni prima
che uscisse il libro “Guarire o curare” scritto con Maria Luisa Verlato e Alberto Zucconi. È stato
il primo articolo, che io conosca, in letteratura medica, in cui si parla del curante come base
sicura e si introduce anche lì il concetto di vicinanza empatica.
Che cosa vuol dire dare corpo alla parola? Significa tantissime cose, ne semplifico alcune.
Innanzitutto significa attenzione alla comunicazione. Non credo molto nelle tecniche di
comunicazione perché non voglio che qualcuno comunichi con me, e non trovo efficace,
usando delle tecniche. Non mi importa se l'altro ha le braccia o le gambe incrociate o distese.
Mi importa invece la sua congruenza. Mi importa, recuperando quanto affermato da Luigina
Mortari, che abbia a cuore l'anima nelle sue parole per cui non si tratta di tecniche di
comunicazione, ma di anima nella comunicazione.
L’altro aspetto che volevo rilanciare come provocazione per una vostra riflessione è che
secondo me cura una relazione in cui il curante è responsabile delle sue emozioni e anche un
curante che sa fare i conti con la sua oblatività. Mi è piaciuto veramente moltissimo quello che
la collega ricercatrice che mi ha preceduta ha sottolineato: il concetto di distinzione, che ha
descritto a partire dai dati di ricerca in modo più accurato di quello che si può fare da un punto
di vista clinico. Posso prendermi cura e posso essere realmente empatica se non confondo,
cioè se non mi confondo con i vissuti dell’altro. E qui ci sta tutta la differenza, che usiamo molto
quando facciamo formazione in ospedale, tra empatia e contagio emozionale.
Due parole ancora sulla comunicazione. In Rogers e Kinget a pagina 21: “perché la cura sia
feconda bisogna che si effettui in funzione dell’esperienza del cliente”. Lo scrivevano Rogers e
Kinget nel 1969, ma ci sono ora in Pub Med moltissimi articoli di riviste scientifiche che ci dicono
che il metodo, la modalità di comunicazione realmente efficace, validata da studi su campioni
di migliaia di pazienti, in regime di degenza o ambulatoriali, è una comunicazione che sia patient
centred, centrata sul paziente. Quindi la letteratura medica scientifica ci dice che
quell’intuizione che aveva avuto Carl Rogers viene validata dalla scienza oggi.
Ancora un flash sulla comunicazione: dalla comunicazione diseguale alla comunicazione
centrata sulla persona.
Questo è un piccolo libro di una linguista torinese (L. Fontanella, La comunicazione diseguale.
Ricordi di ospedale e riflessioni linguistiche, 2009), che è stata ricoverata per un paio di mesi
in una terapia intensiva cardiovascolare. Una donna estremamente resiliente. Quando si è
risvegliata si è detta: “Qui mi annoio. Come faccio a passare il tempo?” Così ha osservato dal
suo letto di ospedale la modalità comunicativa e di gestione dello spazio in una terapia
intensiva e si è detta che purtroppo il 90% della comunicazione in un reparto di terapia intensiva
è una comunicazione diseguale.
L'altro aspetto che io credo sia fondamentale è il tema del tempo.
Perché la cura sia efficace il curante deve ballare allo stesso ritmo, deve cercare lo stesso
passo di danza del paziente, perché ci vuole del tempo per assorbire le notizie negative e
accettare certi tipi di terapie. Abbiamo parlato di amputazioni, di chemioterapia. Di perdita dei
capelli e di molte altre terapie che vanno ad incidere ad esempio sulla fertilità. Ci vuole tempo
per comprendere, per ascoltarsi e capire che cos’è meglio per noi in un certo momento.
Fabrizio Elia è un medico lavora a Torino in un gruppo di giovani internisti che fanno un lavoro
molto attento rispetto al tema della comunicazione. Questo articolo si intitola “Out of Time”
(Acad Emerg Med 2022 Oct) e descrive un case report, riporta questa riflessione: “di fronte
all’ascensore ho visto la moglie di un paziente e ho visto il mio collega. La loro percezione del
tempo è totalmente diversa.” E questo lo ha portato a riflettere sulla difficoltà di cercare di
sincronizzare il tempo dell’operatore sanitario con quello di malato e caregiver.
C’è ancora un messaggio che ci terrei tantissimo a passarvi. È una cosa di cui parlo almeno
due volte alla settimana e da 15 anni nelle formazioni e supervisioni che facciamo agli operatori.
È un messaggio a cui tengo molto perché credo che faccia la differenza: è fondamentale che il
curante sia generoso, che abbia intenzionalità di cura e dedizione, come ci ricordava L.Mortari,
ma deve anche essere una persona che è capace di mettere confini rispetto al suo vissuto e
anche al vissuto che il dolore dell’altro rispecchia dentro di lui.
Dobbiamo lavorare per trasformare in noi, e aiutare gli operatori a farlo loro, il contagio
emozionale, che è quella alluvione in cui io vengo allagata dal dolore dell’altro, nella forma
proprio della sovraesposizione emozionale oppure del freezing, all’empatia. Come descrivo in
Emozioni a colori (san Paolo 2024) utilizzo questa metafora per descrivere l’empatia: mi tuffo
nella piscina dell’altro e poi esco e mi asciugo. Tuffandomi sento la sua temperatura
emozionale ma esco perché se sto nella sua piscina io non posso né sostenerlo né aiutarlo a
capire che cosa succede e non posso neanche tuffarmi nelle prossime piscine perché
qualunque ruolo io abbia di cura in ospedale io vedo 700, 1000, 2000 persone all'anno. Credo
che questo sia un aspetto essenziale.
“Nel calore emotivo della relazione terapeutica il cliente incomincia a provare una sensazione
di sicurezza quando si accorge che tutto quello che esprime è capito dal consultore in modo
quasi identico a quello in cui lui stesso lo percepisce”. Terapia Centrata sul Cliente, pag. 38
Che cosa ci dice la letteratura medica ad oggi? Ci dice che si usa moltissimo il protocollo
SPIKES che è una pietra miliare per la comunicazione di cattive notizie, molto usato nei percorsi
formativi dei medici in ambito oncologico, cardiologico ecc. (W.F. Baile, R. Buckman, SPIKES
– A six-step protocol for delivering bad news. Oncologist. 2000; 5(4)302-11).
L’acronimo SPIKES al punto quinto ha “empathy versus emotion”.
(SPIKES: Setting, Perception, Invitation, Knowledge, Emotions, Summary)
Un articolo meraviglioso di Darius Razavi ha fatto scuola sulla formazione dei medici alla
comunicazione di bad news: faceva formazione identica ai nostri laboratori di empatia. Una
persona racconta una sua sofferenza, un altro lo ascolta, un terzo fa osservatore, quello che
noi chiamiamo le triadi. Uno degli articoli più citati “How to optimization physicians’
communication skills, in cancer care: result of a randomized study assessing the usefulness of
posttraining consolidation workshops” (J Clin Oncol. 2023 Aug 15:21(16)3141-9, è proprio suo
e valorizza questo metodo.
Tutto questo dare corpo alla parola, in qualunque ruolo noi siamo di curanti, permette alla
persona sofferente di dare parola al suo corpo che soffre.
Che cosa significa dare parola al corpo che soffre?
Paola dice “lo chiamavo bastardo”. Ad un certo punto dobbiamo fare i conti col fatto che la
malattia è parte di noi. Non è così significativo il fatto di estraniarci ma volevo farvi l'esempio
per farvi capire che c'è un momento in cui io ho bisogno di permettermi anche di provare la
rabbia, l'angoscia, la disperazione. È fondamentale simbolizzare correttamente l'esperienza,
dare spazio alle emozioni.
Ora torno sul tema della responsabilità che è un tema che mi è molto caro perché fondamentale. Perché una cura sia efficace e perché io dia parola al corpo, occorre chiedere e
ricevere aiuto con consapevolezza e responsabilità.
Per cui la cura funziona se il curante è responsabile ma anche se lo è il malato nella misura in
cui può.
L’equilibrio di ora di Paola è l’esito di una buona cura. Paola è una donna che ha sempre saputo
chiedere e ricevere aiuto, anche se viene da una storia di un attaccamento evitante, l’area della
solitudine, ma dice di aver pagato un prezzo troppo alto a fare da sola e quindi ha imparato a
chiedere aiuto.
Dice: “Con ago e filo ho rimesso insieme i pezzi di una vita in frantumi”.
Ora un accenno a Marco. Una cura efficace è rimettere insieme, quindi elaborare la
dissociazione e ritrovare l’integrità.
Che cosa significa? Se noi torniamo alla nostra teoria della personalità, i due cerchi rogersiani,
quindi l’organismo e il concetto di sé vanno a sovrapporsi, si avvicinano molto e noi sappiamo
che grande vicinanza vuol dire tensione ridotta, grande distanza vuol dire grande tensione
interiore e grande sofferenza.
“Aver cura dell’esistenza è fare della vita un’unità viva”. Marco amputato di gamba e braccio
adesso ha due protesi. Marco ama raccontare la sua storia come possibilità di vivere ancora e
con tante gratificazioni oltre a tante fatiche.
Vi racconto la salute di Marco con una frase di Nicola Gardini: “La salute è coscienza di sé, la
salute è la capacità di tenere a bada le false aspettative, la salute è scoprire il valore non di
quello che si è perduto ma di quello che c’è, la salute è la volontà di decidere per sé e la volontà
di volere”.
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