di Franco Perino
L’evoluzione del rapporto medico (operatore sanitario) – paziente
Il vecchio modello di rapporto medico – paziente di tipo paternalistico, in cui il medico prescrive ed il paziente obbedisce è ormai superato. A seguito di cambiamenti socio-culturali, economici e politici, il cittadino negli ultimi anni tende a voler partecipare in prima persona alla gestione della propria salute e spesso arriva in ambulatorio con molte informazioni mediche, apprese da internet o da una delle numerose riviste o trasmissioni radiotelevisive. Fa molte domande, desidera capire, discutere, “contrattare“ indagini e terapie che gli sono prescritte (Meryn, 1998). Anche da parte dei sanitari c’è la tendenza a migliorare le conoscenze dei cittadini in tema salute perché una maggiore consapevolezza dei fattori di rischio e delle terapie li può aiutare ad effettuare scelte responsabili, ad utilizzare in modo più adeguato i servizi, a prevenire varie patologie legate a stili di vita (promozione della salute) (Ministero della Sanità, 2001).
L’OMS nella Carta di Ottawa del 1986 sottolinea la necessità di considerare la salute come risultante di tutte le componenti della vita di relazione, auspica che i cittadini assumano un ruolo attivo nella promozione della propria salute, rinunciando a delegare passivamente la tutela di essa al sistema sanitario. I cittadini che sviluppano questa nuova prospettiva scoprono di avere un grande potere su se stessi, perché possono influenzare il proprio stato di salute (intesa non come semplice assenza di malattia ma come sviluppo del proprio potenziale umano) attraverso il mutamento degli stili di vita, attraverso cioè scelte coscienti finalizzate a migliorare il rapporto con gli altri e con se stessi (Zucconi, 1995, 2001). Una conseguenza di questo mutato atteggiamento è il “consenso informato”: la legge prevede che il paziente debba dare il proprio consenso per la esecuzione di interventi chirurgici o di indagini che richiedono la somministrazione di sostanze potenzialmente pericolose (es. mezzi di contrasto per arteriografie, urografie ecc.) (Spinsanti, 1999). Il paziente istruito e coinvolto contribuisce a ridurre l’incidenza di errori ed eventi avversi, perché esegue un ulteriore controllo su indagini e terapie prescritte.
Pazienti informati su prognosi, opzioni terapeutiche e rischi, presentano maggiore adesione ai trattamenti e migliori risultati clinici (Coulter, 2002). Il panorama delle malattie è cambiato: la maggior parte delle patologie che il medico si trova a dover affrontare sono croniche e sempre più il suo lavoro non è guarire la persona ma curarla, aiutarla a stare meglio, a convivere con una malattia, come ad es. il diabete, l’infezione da HIV o con un organo trapiantato. La salute non viene più vista come assenza di malattia ma come abilità di funzionare nel modo più completo possibile (Samir, 1997). Le problematiche etiche sono molto più complesse che in passato, basta pensare a quelle sollevate da fecondazione artificiale, eutanasia, clonazione.
La medicina tradizionale comincia a riconoscere un ruolo significativo della componente psicologica nell’insorgenza di numerose malattie, come ad esempio asma, malattia infiammatoria intestinale, artrite reumatoide ecc. In molti reparti sono presenti nel team psicologi (es. in oncologia, malattie infettive ecc.), i cui colloqui con i pazienti sono parte integrante di vari protocolli terapeutici. Il counselling è entrato a far parte degli interventi che vari servizi offrono ai pazienti (es. nell’ambito della genetica, della fecondazione artificiale, dell’assistenza a pazienti HIV positivi ecc.) Da qui la necessità di un nuovo modello di rapporto operatore sanitario – paziente (o cliente), che abbia come obiettivo diagnosticare e curare, come la medicina tradizionale (centrata sulla patologia o sul medico) ma che consideri anche l’impatto che dal punto di vista emotivo la malattia ha sul paziente.
A tal proposito è interessante notare come la lingua inglese distingua il concetto di disease (in tedesco Krankheit) per indicare una malattia dal punto di vista organico da illness (in tedesco Erkrankung) che comprende anche i vissuti personali. Occorre inoltre avere una visione più globale della malattia e della salute, considerando anche l’influenza di fattori ambientali, economici, politici, culturali ecc.
La filosofia di base: il paziente come esperto e come agente di scelte responsabili per la propria salute
I pazienti sono esperti della propria salute perché hanno una propria esperienza circa la malattia, le circostanze sociali, le abitudini, i comportamenti, le attitudini di rischio, i valori, le preferenze. Tutto questo rappresenta la cosiddetta “agenda del paziente”, concetto introdotto la prima volta da Levenstein nel 1986 (Levenstein, 1986). Il medico e gli altri operatori sanitari sono esperti delle tecniche diagnostiche, delle cause della malattia, della prognosi, delle opzioni terapeutiche e delle strategie preventive. Questo rappresenta la loro “agenda”. Dall’incontro e dal confronto di queste due agende, di questi due modi di considerare la salute e la malattia può nascere una relazione operatore sanitario / paziente di tipo collaborativo, che senz’altro è più adatta a rispondere alle esigenze dei cittadini di oggi e a trattare con successo le varie
malattie (Coulter, 2002).
Molti elementi importanti non emergono durante la visita medica (unvoiced agendas), ad esempio: preoccupazioni per la diagnosi e per le conseguenze future, l’idea del paziente su cosa non va bene nel suo organismo, effetti collaterali, desiderio di non volere una prescrizione, informazioni sul suo contesto sociale. Nel 50% dei casi medico e paziente non concordano sulla natura del problema presentato (Barry, 2000). Per realizzare in maniera costruttiva questo confronto occorre che l’operatore sanitario sia in grado di entrare nel quadro di riferimento del paziente ed accettare il suo punto di vista (anche se non sempre lo può condividere). Questo è importante per stabilire una ”alleanza terapeutica”, basata sulla fiducia reciproca, che permette di concordare insieme percorsi diagnostici, obiettivi terapeutici, misure preventive ecc.
Nella pratica quotidiana invece gli operatori tendono spesso ad imporre il proprio modo di intendere la salute e la malattia, dimenticandosi della soggettività e dell’unicità dell’esperienza del malato. I primi giorni del ricovero quando venivano i medici a visitarmi provavo un senso di inferiorità enorme: mi sentivo lontanissima, perché non ne sapevo niente di medicina, avevo paura di parlare, di chiedere. Ogni domanda mi sembrava molto stupida e per loro scontata, banale. Così stavo in silenzio. A volte vedevo che i medici parlavano tra di loro come se la cosa non mi riguardasse… Quando non vogliono farsi capire parlano difficile ed allora è ancora peggio (Veronika, 1995). La conseguenza spesso è una diminuita adesione del paziente alla terapia. Attualmente non si parla più di “compliance”, che implica una obbedienza del paziente ma di “adesione”, che sottintende lo sforzo volontario da parte dell’individuo, una sua partecipazione attiva e impegnata (Zani, 2000).
Circa il 40-50% delle persone ipertese o diabetiche non assume il farmaco, ne varia il dosaggio o lo interrompe troppo presto, non sfruttandone appieno l’efficacia. Circa il 6% dei ricoveri negli USA è dovuto a mancata adesione alla terapia, per un costo annuo di 2 milioni di dollari (Lowes, 1998). Inoltre non considerare l’agenda del paziente, non riconoscere le richieste sottese alla visita, implica fraintendimenti, prescrizioni di esami o di terapie non richieste.
Tendenza attualizzante e “guaritore interno”
Alla base dell’Approccio Centrato sulla Persona c’è il concetto di “tendenza attualizzante”, in base al quale ogni persona ha in sé la capacità di realizzare le proprie potenzialità e di autocurarsi. Il compito dello psicoterapeuta è quello di accompagnare, creando un clima facilitante, il cliente, in un viaggio verso il raggiungimento di un miglior funzionamento, permettendo alle sue risorse interne di agire. Questi concetti possono essere applicati anche al campo medico, dove trovano conferma nella psiconeuroimmunologia: almeno entro certi limiti, il corpo umano è in grado di proteggersi, di autocurarsi, di autoguarirsi anche dal punto di vista fisico.
Tale proprietà è in buona parte legata al sistema immunitario, definito da alcuni “Il guaritore interno” (Locke, 1990). Continuamente esso ci difende dall'aggressione da parte di agenti infettivi, di cellule tumorali, di agenti fisici esterni. Talvolta viene sopraffatto oppure funziona meno (come in situazione di stress) ed allora compare la malattia. Molte moderne terapie cercano di potenziare tale sistema di difesa (con vaccini, anticorpi monoclonali, immunomodulatori) per combattere tumori, infezioni croniche ecc. Il sistema immunitario non è autonomo ma è a sua volta sensibile ad influenze esterne ed interne. In particolare, secondo le tesi della moderna psiconeuroimmunologia esiste una linea di comunicazione diretta tra esso e la mente (Locke, 1990).
Le persone resistenti allo stress si ammalano di meno e quando ciò avviene recuperano in fretta. Le persone “a rischio” (di stress) si ammalano più frequentemente e hanno un recupero più difficoltoso. Chi è dotato di speranza e di ottimismo, ha fiducia in sé stesso, non è spaventato da repentini cambiamenti, riesce ad esprimere le proprie emozioni, ha amici e parenti cui rivolgersi per chiedere aiuto, mostra una resistenza maggiore alle malattie e quand'anche si ammala, ha un recupero più veloce. Coinvolgere il paziente significa aiutarlo a mobilitare le sue risorse, fisiche e psichiche per guarire o migliorare il suo stato di salute.
Quando ho capito che dovevo fare qualcosa io, per me stessa, è scattata come una molla. Il medico mi ha detto: “Lei si è sempre dedicata agli altri, si è spesso sacrificata per loro. Questo però è il momento di pensare un po’ a se stessa e fare qualcosa per sé. Se non guarisce, non potrà più aiutare nessuno”. La partecipazione da parte mia alla gestione della malattia ci voleva per poterla affrontare. E il medico in pratica mi aveva chiamata in causa direttamente. Da questo momento non ho avuto più paura di fare domande. Non avevo più paura del medico. Finalmente avevo trovato il coraggio di chiedergli anche quelle cose che pensavo fossero stupide ma per me molto importanti, perché mi aiutavano a capire.
Tentavo di capire a cosa andavo incontro in modo da trovare anche la forza di reagire e di aiutarmi. C'è stato un momento durante il ricovero, la vigilia del mio compleanno, che mi sono messa di fronte allo specchio e mi sono detta: “Adesso smettila. Hai toccato il fondo della depressione, adesso datti una mossa”. Mi sono lavata, mi sono messa il pigiama bello e ho
cominciato da quel momento a voler reagire in modo positivo. Vedevo che altrimenti veramente non ce l'avrei fatta (Veronika, 1995).
Modello biopsicosociale
Attualmente si tende a non parlare più di “malattia d'organo” poiché è stato visto che l'organismo funziona come una unità, i vari organi sono in stretta correlazione e quando uno non funziona bene vi sono ripercussioni sugli altri. Il modello bio-psico-sociale allarga la nostra visione con la teoria generale dei sistemi e ci permette di vedere la salute non più come il risultato di singole cause ma come l’interazione di varie componenti: biologica, psicologica, ambientale, stile di vita, organizzazione sanitaria.
Negli ultimi anni è stata sottolineata anche l’importanza di un quarto elemento: quello spirituale. Si parla così dell’uomo come di una entità bio psico-socio-spirituale. Negli USA nel ‘94 solo 3 scuole di medicina prevedevano corsi su temi religiosi o spirituali, nel ‘97 ben una trentina. Questo crescente interesse in campo medico è dovuto probabilmente al fatto che le chiavi per affrontare patologie gravi ed invalidanti si trovano spesso nella matrice spirituale del paziente, che costituisce per molti uno schema di riferimento per gestire lo stress della malattia (Levin, 1997).
È stata dimostrata anche una correlazione tra fede e salute, intesa come riduzione dello stress, recupero dopo una malattia o interventi cardiochirurgici, diminuzione della depressione, prevenzione di cardiopatie ed ipertensione, terapia del dolore, adattamento ad una invalidità. In parte questi effetti possono essere legati al fatto che le persone che aderiscono ad associazioni di tipo religioso adottano stili di vita più “sani” (non fumare, non bere alcolici ecc.) (Stephen, 2000).
Un approccio olistico alla persona comprende anche l’ascolto ed il rispetto da parte dei sanitari di aspetti spirituali che il paziente porta nella relazione, che spesso invece non vengono riconosciuti.Queste sono alcune delle domande che talvolta i pazienti pongono e che possono sottintendere il desiderio di parlare anche di aspetti più propriamente spirituali:
“Che senso ha la mia vita ora che avete scoperto il tumore?” “Vedrò crescere i miei figli?”
“Dopo questo infarto potrò ricominciare la mia solita vita?” “Per me la salute era tutto. Ora cosa mi resta?”
Inoltre si sta prestando attenzione anche ad aspetti propriamente “trascendenti”, studiando con metodi scientifici i poteri curativi della mente (preghiera, meditazione, visualizzazione ecc.) che potrebbero in futuro rappresentare una importante possibilità di terapia. Una notissima rivista medica, il «British Medical Journal», ha riportato di recente uno studio sugli effetti positivi della recitazione di rosario e mantra yoga sul ritmo cardiaco (Bernardi, 2001). Questa nuova frontiera è la cosiddetta “medicina transpersonale” che ha come principale interprete Larry Dossey (Dossey, 2000).
Alcuni Autori ritengono che una componente molto importante della relazione medico-paziente sia l’interconnessione profonda che talvolta si instaura e che permette di superare il senso di separatezza, di isolamento, di solitudine che il paziente a causa della malattia può provare (Suchman, 1988). Anche Rogers, parlando della sua esperienza nei gruppi, riferisce un concetto simile, riportando la seguente testimonianza di un partecipante: Ho sperimentato come una profonda esperienza spirituale. Ho sentito l’unicità di spirito della comunità.
Respiravamo insieme, sentivamo insieme, parlavamo addirittura l’uno per l’altro. Ho sentito il potere della ‘forza vitale’ che anima ciascuno di noi – qualunque cosa essa sia. Sentivo la sua presenza oltre le consuete barriere di io e tu – come in un’esperienza medianica in cui ci si sente come un centro di coscienza, parte di una coscienza più ampia, universale. E nonostante quello straordinario senso di unicità del gruppo, la separatezza di ogni persona presente non mi si è mai presentata in modo più chiaro (Rogers, 1983). Molte persone rinunciano alle terapie tradizionali e si rivolgono a quelle alternative non per sfiducia ma perché queste ultime sono più congruenti con i propri valori, le proprie credenze, i propri orientamenti filosofici verso la salute e la vita (Astin, 1998).
Operatore sanitario e paziente come “compagni di viaggio”
La vita è come un viaggio che percorriamo entusiasti o incerti, soli oppure in mezzo a tanta gente. Il passo può farsi improvvisamente lento e sentiamo il bisogno che qualcuno ci sia accanto e ci dia una mano, ma soprattutto ci dia la sicurezza di una “presenza” (Sandrin, 2000).
La maggior parte dei pazienti è attualmente affetta da malattie croniche, che si possono CURARE ma non GUARIRE: diabete mellito, insufficienza renale cronica, obesità, psoriasi, ipertensione, vari tumori ecc. Gli interventi degli operatori dovrebbero essere finalizzati innanzitutto a prevenire tali patologie (quando possibile) mediante la promozione alla salute. Quando invece sono già presenti dovrebbero aiutare la persona a convivere con esse, a trovare nuovi equilibri e a realizzare la migliore qualità di vita.
Secondo Rogers la “tendenza attualizzante” può venire contrastata ma non soppressa. In altre parole una persona può crescere in un ambiente talmente sfavorevole che le rende difficile esprimere le proprie potenzialità: Le condizioni in cui queste persone si sono sviluppate sono state così sfavorevoli da far sembrare le loro esistenze anormali, pervertite, scarsamente umane. Eppure, si può fare affidamento alla tendenza direzionata che alberga in loro. La chiave per capire il loro comportamento è che esse stanno lottando, con le uniche modalità che sentono di avere a disposizione, per muoversi verso la crescita, verso il divenire. Per le persone senza problemi i risultati possono sembrare bizzarri e futili, ma essi sono i disperati tentativi della vita di diventare se stessa (Rogers, 1983).
Allo stesso modo una persona a causa di un incidente o di una malattia, può subire una notevole riduzione delle proprie capacità ma, se aiutata, può riuscire a sviluppare le potenzialità che le restano. Molte di queste persone, pur avendo evidenti handicap fisici, sono diventate ottimi operatori di volontariato, ricercatori, scrittori, musicisti ecc. Oliver Sacks così descrive le incredibili capacità adattative del nostro sistema nervoso: Difetti, disturbi e malattie possono, in questo senso, avere un ruolo di paradosso, portando alla luce risorse, sviluppi, evoluzioni e forme di vita latenti che, in loro assenza, potrebbero non essere mai osservati e nemmeno immaginati.
È proprio il paradosso della malattia, questo suo potenziale “creativo” che fornisce il tema centrale di questo libro […] Quest’idea della grande plasticità del cervello, capace degli adattamenti più impressionanti, perfino nelle circostanze particolarissime (e spesso disperate) di handicap neurale o sensoriale, è arrivata a dominare la mia personale percezione dei miei pazienti e delle loro vite… (Sacks, 1995). La terapia della riabilitazione si basa proprio su questa filosofia: una persona che ha subito una riduzione delle proprie capacità viene aiutata ad adattarsi alla nuova situazione e a sviluppare le potenzialità “residue”.
Una situazione estrema di “accompagnamento“ è quello dei pazienti oncologici gravi e di quelli terminali, che mette a dura prova la capacità dell’operatore di accettazione dei loro sentimenti di rabbia, frustrazione, il desiderio talvolta di solitudine ecc. (Metz, 2002). Si può accompagnare anche una persona in stato di coma, comunicando attraverso canali non verbali, massaggiando, parlando, facendo sentire musica. Sintonizzandosi col suo respiro, osservando i movimenti della gabbia toracica e respirando insieme è possibile, ad es., aiutarla a calmarsi. Non è chiaro quale sia il meccanismo che entra in gioco, ma sembra che le persone in coma percepiscano in qualche modo la nostra presenza (De Hennezel, 2002).
Chi si occupa profondamente di assistenza ai morenti arriva a sviluppare in maniera notevole la propria empatia, la propria intuizione fino a livelli vicini alla percezione extrasensoriale.
Un sacerdote che da molti anni assiste malati terminali, riferisce che entrando nelle loro stanze riceve spesso dalle persone in coma messaggi, di solito sotto forma di immagini, che si rivelano poi esatti (Gruber, 2002).
Un fenomeno simile lo descrive anche Rogers che talvolta, mentre un cliente parlava di sé, percepiva delle immagini, che poi gli comunicava presentandole non come una verità, ma come sue fantasie. Spesso risultavano felici intuizioni ed erano utili all’altro.
Confido nei sentimenti, nelle parole, negli impulsi, nelle fantasie che emergono in me. In questo modo non mi limito a usare il mio Sé conscio, e suscito così le possibilità del mio intero organismo (Rogers, 1976).
La malattia quale possibile momento di crescita
Talvolta i significati che le persone danno all’esperienza “malattia” sono molto profondi, e riguardano la loro intera esistenza, come risulta dalle testimonianze che seguono:
Sono uscita dall'ospedale e a casa ho trascorso la sera di Natale da sola, con una grande serenità. Mi sentivo bene dentro. Avevo voglia di ringraziare le mani di quei medici che mi avevano operata e lasciato quei segni sulla pelle. Cominciavo a vedere la cicatrice come una compagnia e poi ho cominciato a sentire il mio segno sulla schiena come un segno di vita: ho pensato che se non ci fosse stata la ferita avrei avuto ancora il male. Invece no c'era una ferita e c'era voglia di vivere. Quando la voglia di vivere mi viene a mancare perché vengo schiacciata negli ingranaggi della vita c'è una enorme battaglia in me: prima mi lasciavo andare e cadevo in depressione ora invece scatta in me la voglia di superare questo momento e di vivere.
In ospedale ho imparato a volermi bene e ad accettarmi di più con i miei limiti. Una volta mi svalutavo solo e mi dicevo “Guarda, sei proprio stupida!” e molte altre cose negative. Ora invece mi dico che sono stata brava a superare così tanti guai. Se gli altri questo non me lo riconoscono, fa lo stesso perché IO me lo riconosco (Veronika, 1995). La malattia può rappresentare un momento di crescita, se l´individuo viene aiutato da chi gli sta intorno ad elaborarla e a simbolizzarla correttamente nella coscienza. All'inizio la risposta era carica di ribellione, di rabbia, di malumore e depressione. Una serie di colpevolizzazioni, sensi di colpa che emergevano e mi trascinavano sempre più giù.
Poi, dopo l'incontro con un medico che mi ha saputo vedere e accogliere così come ero, confusa, arrabbiata, impaurita, ho cominciato a parlarmi in modo diverso. Ho visto questo tempo di “sosta forzata” come un dono, perché mi permetteva di conoscere meglio me stessa. Ho cominciato a scoprirmi con dei limiti, perché farsi aiutare può essere molto difficile (per il tempo della malattia si dipende dagli altri) perciò o si scopre l'umiltà di accettare l'aiuto o si diventa acidi, cattivi con se stessi e con gli altri, proprio perché ci si vede così come realmente si è e non ci si piace, si fa fatica ad accettarsi. Ho trovato in me delle nuove potenzialità che non pensavo di avere (Veronika,1995).
Cosa aiuta a curare
Secondo Moira Stewart (Stewart, 2001) i compiti del medico oggigiorno dovrebbero essere:
esplorare i principali motivi della visita, le preoccupazioni ed il bisogno di informazione;
perseguire una comprensione integrata del mondo del paziente, cioè della sua intera persona, dei bisogni emotivi, dei vari aspetti della sua vita;
trovare un terreno comune sulla definizione del problema e stabilire un accordo reciproco sulla terapia;
potenziare prevenzione e promozione della salute;
promuovere la relazione continua tra paziente e medico.
Per fare questo occorrono ovviamente competenze comunicative adeguate. Carl Rogers aveva individuato tre condizioni come necessarie e sufficienti affinché una relazione interpersonale fosse di “aiuto”: congruenza e trasparenza, accettazione positiva incondizionata, comprensione empatica. Esse sono valide per qualunque tipo di interazione, tra terapeuta e cliente, genitori figli ed anche tra operatore sanitario e paziente.Per essere efficaci devono essere trasmesse all’altro e questo può avvenire a due livelli (Larson,1993; Gordon, 1995; Moja, 2000):
Non verbale:
posizione diritta, frontale, corpo inclinato in avanti
postura aperta, rilassata
contatto oculare
cenni del capo che si sta seguendo il discorso
Verbale
silenzio (non interrompere il discorso)
parafrasi, brevi riassunti, categorizzazioni
domande (aperte o chiuse o di stimolo)
tecniche di eco
focalizzazione
feedback (checking back skills)
riflessione dei sentimenti (ascolto empatico)
autorivelazioni
evitamento delle barriere verbali e non verbali (Gordon, 1995; Quill, 1989).
In base a vari studi (Levinson, 1988; Suchman, 1997) sembra particolarmente importante, sia per la relazione che per gli outcomes clinici, il riconoscimento da parte del medico dei prompt (suggerimenti) e dei clues (indizi) verbali e non, che il paziente presenta durante la visita. Con questi termini si intendono delle indicazioni che l’altro ci dà, in maniera non esplicita, di suoi stati d’animo o di circostanze importanti della sua vita (di coppia, lavorativa ecc.). Durante ogni visita ne è presente almeno uno.
Costituiscono per il medico una possibilità di entrare nel quadro di riferimento dell’altro (window of opportunity) e dimostrare empatia (empathic response/empathic opportunity continuer). Spesso non vengono invece colti (missed empathic opportunity) oppure l’operatore svia il discorso, ironizza, nega ecc. (empathic opportunity terminator). Il motivo può essere che non si sente a proprio agio con le emozioni che emergono (a causa della sua formazione) o perché teme che la visita duri più a lungo (mentre invece è stato dimostrato il contrario). Tutte queste modalità di trasmissione corrono il rischio di diventare delle tecniche fredde, se non vengono messe in pratica in un contesto “centrato sulla persona”.
Dall’analisi di numerosi colloqui emerge che Carl Rogers cercava di entrare nel quadro di riferimento dell’altra persona e di accompagnarla con molto rispetto, con tutto il calore e l’autenticità di cui era capace, creando un clima che permettesse alla tendenza attualizzante di agire. I suoi interventi non rispecchiavano l’applicazione di tecniche. Anche la “riflessione dei sentimenti” è stata mal interpretata da molti come una “tecnica”, mentre in realtà Rogers tramite questo tipo di intervento cercava di verificare se era corretta la sua comprensione del mondo intimo del suo cliente, in tutte le sue sfumature. Non sto cercando di “riflettere i sentimenti”. Sto cercando di determinare se la mia comprensione del mondo interno del cliente è corretta – se io sto vedendo come lui o lei lo sta sperimentando (experiencing) in quel momento […] Suggerisco che queste risposte del terapeuta non dovrebbero essere chiamate riflessione dei sentimenti” ma “verifica della comprensione o della percezione” (“Testing Understandings” or “Checking Perceptions”)» (Rogers, riportato in Brink, 1996).
Questa non era la sua unica modalità di intervento perché, anche se meno spesso, dava risposte che sono state così classificate: orientamento, conferma della sua attenzione, riformulazione, riconoscimento di sentimenti sottostanti non espressi, rassicurazione, interpretazione, confronto, domanda diretta, mantenimento o interruzione del silenzio, autoapertura (Brink, 1996).Ciò che era importante era la qualità complessiva della sua “presenza”, il fluire della relazione ed il suo sviluppo.
In alcuni momenti l’operatore sanitario si trova in una vera e propria relazione di aiuto con pazienti che esprimono il proprio disagio, oppure in un rapporto di counselling. Nella quotidianità lavorativa però le interazioni tra operatore e paziente sono di solito abbastanza brevi, magari ripetute, finalizzate all’espletamento di attività pratiche, quali fare un prelievo, somministrare un farmaco, fare una visita (in 10-15 minuti), eseguire una indagine diagnostica ecc.
Non c’è molto tempo da dedicare all’ascolto. Anche in questi brevi incontri è però possibile instaurare una relazione che sia di supporto: si può inserire una flebo incoraggiando il paziente con un sorriso e due “chiacchiere”, si può accogliere la persona in ambulatorio stringendole la mano con un’aria cordiale ecc. Tramite l’esecuzione, ad esempio, di una procedura tecnica è possibile trasmettere empatia, accettazione e congruenza. Nasce allora un “momento terapeutico”, una situazione significativa e positiva per entrambe le parti.
La stessa cosa può valere per le interazioni tra i vari operatori che con un modo di essere “centrato sulla persona” potrebbero creare un clima lavorativo in cui vengono espresse le emozioni significative (disagi, gioie, difficoltà, soddisfazioni), viene accettata la diversità e l’unicità di ognuno, vi è attenzione, comprensione e rispetto degli stati d’animo altrui (Schwarz, 2001). Si forma un team “emotivamente intelligente”, in cui verosimilmente vi è maggiore motivazione, minore turnover e meno assenze per malattia. È inoltre necessario che l’operatore abbia le seguenti caratteristiche:
creatività e flessibilità: in una realtà complessa come quella sanitaria occorre saper “inventare”, avere il coraggio di improvvisare, seguendo il proprio intuito e la propria sensibilità: ricordarsi del compleanno di una persona ricoverata o di un collega, attuare in reparto o in ambulatorio delle migliorie per dare a chi arriva una sensazione di accoglienza, di attenzione alla persona ed ai suoi bisogni (colore delle pareti, illuminazione, tipi di sedie, angolo con giochi per bambini ecc.) (Ripke, 1994). Patch Adams è stato un precursore in questo senso, avendo introdotto negli ospedali la figura del Clown per aiutare le persone malate tramite l’umorismo: «La salute si basa sulla felicità – dall’abbracciarsi e fare il pagliaccio al trovare la gioia nella famiglia e negli amici, la soddisfazione nel lavoro e l’estasi nella natura e nelle arti» (Adams, 1999).
capacità di risolvere in maniera costruttiva gli inevitabili conflitti con colleghi e pazienti
capacità di problem solving
saper organizzare la propria vita in modo “sano”, avendo fonti di ricarica per prevenire e combattere lo stress (obiettivi ed aspettative realistiche rispetto al lavoro, dormire a sufficienza, buoni rapporti famigliari e sociali, sport, meditazione ecc.) (Larson, 1993).
La formazione dovrebbe aiutarlo a divenire sempre più centrato sulla persona, la propria e quella altrui, e non solo ad acquisire delle tecniche perché queste ultime “non possono mai sostituire una genuina intenzione di aiutare” (Larson, 1993) È la qualità della presenza che aiuta a guarire.
Nel tempo […] sono diventato più consapevole del fatto che in terapia io uso veramente me stesso. Lo riconosco quando sono intensamente concentrato su un cliente, solamente la mia presenza sembra portare a guarigione ….(e) io sono incline a pensare che nei miei scritti forse ho dato troppa importanza alle tre condizioni di base (congruenza, considerazione positiva incondizionata, comprensione empatica). Forse è qualcosa ai confini di queste condizioni che è veramente il più importante elemento della terapia: quando il mio sé è chiaramente, evidentemente presente (Rogers citato in Baldwin, 1987, p. 45) (Bozarth, 2001).
Dale Larson parla della capacità di guarire della presenza umana («The healing power of the human presence») (Larson, 1993).
Management emotivamente intelligente
È più facile che un team di operatori diventi “centrato sulla persona” se anche i responsabili condividono e promuovono i valori che ne sono alla base. Il ruolo di manager, amministratori e primari non è al momento molto facile, dovendo intraprendere (o subire) misure impopolari quali riduzione di posti letto, tagli di organico, chiusura di servizi o reparti, introduzione o abolizione di ticket ecc. Ci sono vari studi che evidenziano però come il vecchio stile di management, autoritario, accentratore, sia meno efficace di quello democratico, “intelligente emotivamente”, che si basa su: promozione della comunicazione ad ogni livello nell’Azienda, rispetto e valorizzazione delle diversità dei dipendenti, empowerment degli stessi (deleghe, autonomia dei gruppi di lavoro, considerazione per idee innovative, da qualunque parte vengano), condivisione delle decisioni, incentivazione della formazione ecc.
In base a questo modello il responsabile (ad esempio il primario di un reparto) è colui che, dotato di buone capacità comunicative, “facilita” il gruppo di lavoro, considera partner (e non sottoposti) i propri collaboratori e li aiuta a raggiungere gli obiettivi che insieme erano stati concordati (Ryback, 2000).
I vantaggi di una buona comunicazione tra operatore sanitario e paziente
Spesso in ambito sanitario viene data per scontata la capacità di “parlare” col paziente oppure viene considerata una perdita di tempo. Negli ultimi anni sono state pubblicate numerose ricerche che hanno dimostrato i vantaggi dal punto di vista clinico di una efficace comunicazione tra operatore sanitario (medico in particolare) e paziente:
risponde meglio alle richieste di “democrazia” del paziente/cliente (Coulter, 2002)
ha maggiore efficacia dal punto di vista clinico, ad es. miglior controllo dei valori pressori o glicemici In particolare la capacità del medico di essere empatico risulta correlata a migliori outcomes, considerando parametri quali salute emotiva, risoluzione dei sintomi, controllo di dolore, pressione arteriosa, livelli glicemici ecc. (Simpson, 1991),
è più efficace nella prevenzione e nella promozione della salute (Zucconi, 2001)
produce maggiore adesione del paziente alla terapia (Lowes, 1998)
determina migliore qualità percepita dell’assistenza prestata, del servizio, miglior marketing dell’Azienda Sanitaria. Fino a pochi anni fa la bontà di un servizio era valutata soprattutto riferendosi a dati oggettivi (es. numero di prestazioni, dotazione di attrezzature, numero di operatori..). Oggigiorno sempre più si considera la qualità percepita dal cliente: una prestazione per essere valida deve essere tecnicamente efficace ma deve anche essere accompagnata da una buona relazione operatore-cittadino. In Gran Bretagna prevedono di includere il feedback dei pazienti tra gli indicatori di qualità delle prestazioni (Coulter, 2002).
riduce le cause intentate per malpractice (Forster, 2002). I reclami dei pazienti contro i medici, infatti, sono legati a fattori quali: incapacità di questi ultimi di stabilire una buona comunicazione, scarsa accessibilità (cioè disponibilità al colloquio), prescrizione di terapie che non rispondono alle aspettative ecc. (Hickson, 2002).
riduce la durata delle visite. Alcuni studi evidenziano che, contrariamente a quanto molti medici pensano, rispondere ai segnali che indicano preoccupazione nel paziente diminuisce la durata della visita medica (Levinson, 2000).
Conclusioni
Nel mondo sanitario sono in atto importanti trasformazioni che richiederanno maggiore collaborazione e migliore comunicazione tra cittadini-pazienti e cittadini-operatori sanitari, amministratori, politici. Questo potrebbe permettere di aumentare la qualità dell’assistenza e della salute di tutti i cittadini e di affrontare in maniera costruttiva i vari problemi che via via continueranno ad emergere: assistenza ad una popolazione sempre più anziana, aumento delle malattie croniche, psicosomatiche, problematiche etiche (terapia genica, clonazione, eutanasia ecc.), risorse economiche più limitate e così via. Ritengo che l’Approccio Centrato sulla Persona, data la sua “centratura” sull’essere umano sia estremamente attuale e possa costituire un importante punto di riferimento e strumento per la formazione degli operatori.
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