Di Federica Meconi, ricercatrice presso il Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell'università di Trento
Le neuroscienze definiscono l’empatia come quella capacità che abbiamo di condividere l’esperienza emotiva dell’altro attraverso meccanismi di risonanza interni, ma anche una capacità di comprensione esplicita di quello che l’altro sta pensando e provando.
Le neuroscienze ci hanno permesso di comprendere che queste due grandi componenti dell’empatia, la condivisione empatica e la comprensione, sono servite da aree cerebrali diverse.
La condivisione empatica è servita principalmente dalle aree dei neuroni specchio, ma anche dall’insula anteriore, che è un’area che si occupa della rappresentazione viscerale di informazioni molto salienti. La comprensione esplicita è servita da aree che fanno parte del circuito prefrontale ma soprattutto dalle aree parietali tra cui il precuneo e la giunzione temporo parietale.
Possiamo dire che l’empatia sia la percezione dell’altro nel Sé.
I teorici che per primi hanno parlato di empatia hanno detto: “L’unico stato mentale al quale abbiamo un accesso esperienziale è il nostro” (Theodore Lipps). Secondo Edith Stein “L’empatia è l’esperienza della coscienza dell’altro, quindi l'empatia può solo essere un sentimento che non è primordiale.” È importante dire che quando parliamo di empatia parliamo di quel sentimento che noi proviamo al nostro interno insieme al sentimento dell’altro.
Secondo Rogers “L’empatia è la percezione del sistema interiore di un altro individuo con l’accuratezza di come se uno fosse la persona in oggetto ma tuttavia senza mai perdere la condizione del come se’”.
Secondo alcuni recenti contributi di neuroscienziati “L’esperienza empatica è un sentimento isomorfo, cioè della stessa forma, che si sperimenta nel proprio Sé ma la cui origine primordiale è comprensibilmente nell’altro”.
Questo concetto mette in luce che per poter entrare in empatia, per poter avere un’autentica esperienza empatica con l’altro, è molto importante che noi possiamo distinguere Il nostro Sé dalla dimensione dell'altro.
Che cosa intendiamo per “Sé”, qual è la percezione del nostro Sé che noi possiamo effettivamente indagare?
Utilizzando strumenti messi a disposizione dalle neuroscienze ho indagato due tipi di Sé: ll Sé autobiografico e il Sé corporeo.
Questi due Sé sono forniti da aree cerebrali diverse: il Sé autobiografico dalle cortecce prefrontali e da quelle parietali, il Sé corporeo dal sistema somato-sensoriale e soprattutto ha a che fare con l'insula anteriore, area cerebrale che, come detto, rappresenta visceralmente le informazioni salienti.
Vi presento i risultati di quattro studi che ho condotto, tre dei quali hanno indagato il Sé autobiografico e uno il Sé corporeo, contestualmente alla nostra percezione dell’altro.
L’obiettivo era verificare fino a che punto noi sfruttiamo il nostro Sé autobiografico o il Sé corporeo per entrare in contatto empatico con l’altro, per riuscire a percepire l’altro.
La domanda da cui sono partita per questa ricerca è come la percezione del Sé autobiografico e corporeo sia effettivamente in rapporto alla percezione dell'altro.
Quando si parla di percezione del Sé autobiografico si fa riferimento alla memoria, in particolare a quella autobiografica, cioè a lungo termine.
Per poter definire la memoria autobiografica dobbiamo riferirci ad un evento che è definito nel tempo e nello spazio.
Vi mostro un’immagine della casa di Elvis Presley in cui sono stata. Nel momento in cui ve la mostro riesco a tornare esattamente nel tempo e nel luogo in cui ho fatto la foto.
Questo fa parte della mia esperienza autobiografica.
Di solito abbiamo l’idea intuitiva di entrare meglio in empatia con una persona che racconta un’esperienza che abbiamo vissuto anche noi.
È vero? Fino a che punto facciamo riferimento alle nostre esperienze autobiografiche per capire l’altro?
Dagli studi è risultato che i partecipanti tendevano effettivamente a dire che provavano più empatia verso individui descritti in quei contesti che appartenevano anche alla loro esperienza autobiografica, rispetto a quando non avevano vissuto quell’evento.
Ma allora se io non ho memorie non posso essere empatico? Un terapeuta, un educatore deve avere veramente tutto il range delle esperienze umane per riuscire ad entrare in empatia con l’altro?
E se noi abbiamo vissuto lo stesso evento ma abbiamo associato ad esso una emozione diversa, è utile sfruttare la nostra esperienza autobiografica per entrare in empatia con l’esperienza dell’altro?
Da un altro studio è emerso che non era tanto rilevante se l’evento in cui degli individui erano descritti appartenesse o meno alla memoria autobiografica dei partecipanti. Al contrario, ciò che risultava davvero importante era se gli individui per i quali i partecipanti tentavano di entrare in empatia fossero effettivamente capaci di provare quella specifica emozione associata all’evento in cui venivano descritti.
Il Sé autobiografico, la nostra esperienza passata, chi siamo stati fino a quel momento, ci è utile per entrare in empatia con l’altro. Possiamo usare tale esperienza ma sappiamo che possiamo o dobbiamo metterla da parte quando non ci è utile per rappresentare nel modo più corretto possibile l’esperienza dell’altro.
Nell’ultimo studio mi sono posta la domanda se la distinzione fra Sé e l’altro fosse solo mentale o potesse essere riscontrato nella percezione del proprio corpo, o dei suoi confini, ovvero nel Sé corporeo.
In questo esperimento abbiamo sfruttato un particolare tipo di tocco: il tocco affettivo. Questo è un tocco che ha una certa temperatura, quella umana, e viene fatto ad una certa velocità, quella di una carezza.
Il tatto ha a che fare con recettori della cute che inviano informazioni al cervello. Nel caso del tocco affettivo, è la mia interpretazione di questo tocco, che arriva al mio corpo dall’esterno, a farmelo percepire come piacevole. In alcune condizioni cliniche questo tocco, infatti, non è percepito come piacevole, ad esempio quando c’è una forte dispercezione corporea, come accade nella anoressia.
Il tocco affettivo ci dà quindi indicazioni sul nostro Sé, sulla interpretazione che noi diamo ai segnali che provengono dall’esterno e attraverso la nostra pelle.
La domanda qui è stata la seguente: se l’empatia è la percezione dell’altro nel Sé, quanto deve essere buona la percezione del Sé perché poi non ci confondiamo, non entriamo in un contagio che confonde i confini del sé e dell’altro?
All’aumentare della sensibilità al tocco affettivo, quindi all’aumentare della percezione del Sé, aumentava anche l’empatia riportata dai partecipanti per lo stato emotivo del protagonista di un evento spiacevole. Ovvero la percezione del Sé sembrava essere effettivamente legata alla percezione dell’altro.
Da tutti questi studi messi insieme emerge che il nostro Sé autobiografico può essere sfruttato per percepire l’altro, ma solo quando è necessario e quando noi abbiamo effettivamente quelle informazioni nella nostra storia. Altrimenti possiamo sfruttare la nostra capacità di cambiare prospettiva e non farci influenzare necessariamente dai nostri punti di vista, dalla nostra esperienza.
Il nostro Sé corporeo, che è quello che percepiamo provenire dalle sensazioni della nostra pelle, ci supporta nella percezione dell'altro.
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